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Che cosa vuol dire l’espressione: “Dato in man di Satana”?

Adi Reggio Calabria
Pubblicato da in - Investigate le Scritture · 22 Marzo 2017
Tags: SatanaPaoloCorinzi
 
La frase citata è ripetuta due volte nelle epistole dell’apostolo Paolo: nel caso del membro della comunità di Corinto che conviveva con la matrigna, “ho deciso che quel tale sia dato in man di Satana …” (I Corinzi 5:5), e nel caso di Imeneo ed Alessandro, “… i quali ho dati in man di Satana affinché imparino a non bestemmiare” (I Timoteo 1:20).
 
 


TRE CASI DISCIPLINARI
Nel primo riferimento viene sottoposto a questa speciale disciplina l’immorale di Corinto che coabitava con la matrigna, di certo pagana, altrimenti anche lei sarebbe stata colpita dallo stesso drastico provvedimento. Il secondo caso è quello di Imeneo, il quale dovette sottomettersi alla stessa disciplina in quanto insegnava che la risurrezione fosse già avvenuta (cfr. II Timoteo 2:18). A questi, in seguito, si unì anche Fileto, con l’intento di propagare l’eresia, secondo cui la risurrezione non era corporale ma spirituale, una risurrezione, cioè, dell’anima dalla morte del peccato. II terzo caso, più complicato, è quello di Alessandro, che molti identificano con lo stesso personaggio che incontriamo nel tumulto di Efeso, un ebreo che cercò di calmare gli animi in modo tale che la colpa del disordine non ricadesse sui Giudei (cfr. Atti 19:33), e di nuovo citato in II Timoteo 4:14. Se fosse la stessa persona, probabilmente, sarebbe tra gli accusatori di Paolo nel primo processo dinanzi ai giudici. Quel riferimento a “non bestemmiare”, e anche la frase “si è opposto violentemente alle nostre parole”, sembrano indicare o una sua reazione alla difesa dell’apostolo dinanzi ai giudici, oppure l’opposizione alla verità evangelica annunciata da Paolo. Se si identificasse con l’Alessandro giudeo di Efeso, costui si sarebbe convertito al cristianesimo e, in seguito, si sarebbe sviato e avrebbe “bestemmiato” o vituperato la verità e, quindi, “dato in mano di Satana”. Tale personaggio, invece di ravvedersi, avrebbe persistito nella sua opposizione alla verità, fino a divenire un acceso accusatore di Paolo e dell’Evangelo da lui proclamato. L’apostolo, quindi, non può fare altro che abbandonarlo nelle mani di Colui che dà la retribuzione a ciascuno secondo le proprie opere. Dalla descrizione ne consegue che questo drastico intervento disci-plinare era applicato in casi di immoralità, false dottrine e netta opposizione all’Evangelo.
   
“DATO IN MAN DI SATANA”
L’apostolo usa l’autorità spirituale che ha ricevuto dal Signore; egli, infatti, afferma: “Nel nome del Signore Gesù, essendo insieme riuniti voi e lo spirito mio, con l’autorità del Signore nostro Gesù, ho deciso che quel tale sia consegnato a Satana, per la rovina della carne, affinché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore Gesù” (I Corinzi 5:4, 5; Vers. N.R.). Questi due versetti sono stati interpretati e usati male, in quanto sono stati considerati soltanto come un’autorevole e drastica forma di scomunica esercitata dalla chiesa, che ne avrebbe il potere. Sembra, infatti, che questa fosse la formula usata dall’inquisizione quando condannava ad essere arsi vivi gli eretici o quanti venissero considerati tali. In ultima analisi, si affermava che quel martirio era un atto di amore per impedire loro di continuare a perseverare nell’eresia e concedere loro una possibilità per essere salvati.
Il dare “in mano di Satana” non era una semplice, solenne formula ecclesiastica, ma significava allontanare l’individuo dalla comunione della chiesa, spingendolo nel mondo che è sotto il dominio di Satana. Il testo esprime il concetto secondo il quale la comunità cristiana è come un’oasi illuminata dalla luce della grazia, in cui regna e si manifesta il Signore con la Sua presenza, con la Sua potenza e con il Suo amore, mentre il mondo è immerso nelle tenebre dove regna l’avversario di Dio, che dispensa sofferenza, schiavitù e morte. Quindi, dare “in man di Satana” voleva dire soltanto che l’immorale o l’eretico o il ribelle veniva abbandonato in balia del mondo delle tenebre perché, colpito da qualche malattia o prova fisica, fosse spinto a ravvedersi abbandonando il male. La sofferenza avrebbe dovuto svolgere il proprio ministerio disciplinare per ricondurre il traviato a Dio ottenendo perdono, riabilitazione e salvezza.
“L’uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall’agitazione incessante delle sue ossa … Ma se, presso di lui, c’è un angelo, un inter¬prete, uno solo tra i mille, che mostri all’uomo il suo dovere, Dio ha pietà di lui …” (Giobbe 33:19, 23, 24).
 
L’USO DELLA DISCIPLINA
L’autorità spirituale era così evidente, in quel periodo tanto ricco di carismi, che abbiamo diversi esempi dell’uso di questo potere a salvaguardia della purezza dei costumi e della santità della chiesa, Il caso di Anania e Saffira o della cecità che colpì il falso profeta e mago Elima ne sono esempi evidenti. Sappiamo, però, anche di qualche caso accaduto all’inizio del Risveglio pentecostale, ad esempio durante il ministerio di Giacomo Lombardi ed altri. Se un credente messo sotto disciplina per qualche grave infrazione si ribellava al divieto di partecipare al culto intervenendo con una preghiera pubblica o una testimonianza, veniva colpito temporaneamente da mutismo fino a quando, mediante la pre-ghiera dei fratelli, riacquistava la favella. Come mai oggi questo non avviene più? Probabilmente perché, nella guida del Signore, non osiamo intervenire tanto drasticamente. Per questo oggi l’amministrazione della disciplina è uno dei punti deboli nelle comunità, sia da parte di quelli che dovrebbero attuarla sia da parte di coloro che dovrebbero accettarla. Da quando si è instaurata l’idea che la chiesa si fonda soltanto su “principi democratici”, comuni a quelli della società, si è perduto il senso profondo dell’importanza della disciplina spirituale, che è stata sostituita con una forma di tolleranza, scambiata per amore, che spesso oscura perfino l’importanza della santità nell’ambito della comunità cristiana. Spesso accade, proprio come a Corinto, che i credenti sono tanto interessati alla ricerca e all’uso dei carismi, che dimenticano l’importanza del comportamento cristiano. Carismi e frutto dello Spirito debbono essere in perfetto equilibrio, per questa ragione lo Spirito Santo ci ricorda: “Ma desiderate ardentemente i doni maggiori. E ora vi mostrerò una via, che è la via per eccellenza” (I Corinzi 12:31). Questa via è quella dell’amore. Il frutto dello Spirito deve regolare ogni aspetto della vita di ogni cristiano.
 
 
 

Tratto da libro “A domanda risponde” di Francesco Toppi – Ed. ADI MEDIA



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